28.2.11

10 bisogni di teatro ragazzi

10 bisogni di teatro
ottobre 2009

Il bambino ha alcuni bisogni a cui il teatrante, meglio di molti altri adulti, può corrispondere. Le sue esigenze oggi sono numerose, mutevoli e variegate, quindi ciascun teatrante con la forza della propria arte può lasciarsi ispirare da alcune di esse e creare un flusso di emozioni e cognizioni formidabili, che lasceranno una intenso incoraggiamento evolutiva nell’esperienza dei bambini.
L'ERT del Friuli Venezia Giulia mi ha chiesto di sintetizzare questi bisogni e io tento di farlo con questi dieci spunti.

10 bisogni di teatro peer il teatro ragazzi

di Marco Geronimi Stoll*

Ciascun teatrante ha un genere, uno stile, una vocazione. Il bambino, no. Ha una propria vocazione assai meno differenziata di quella del teatrante. È più onnivoro, deve ancora trovare il proprio gusto, il proprio stile nel teatro dell'esistenza. La sua strada è ancora all’inizio dei mille bivi, somiglia a quella del teatrante quand’era bambino.
Rompere il vetro
Il bambino oggi ha poche occasioni di esplorare il territorio: la città postmoderna è meno ospitale, spesso le strade sono off limits, raramente c’è l’esperienza della natura e l’interazione degli animali. Vede il mondo dalla finestra, dai finestrini della macchina che sanciscono una separazione tra osservatore ed oggetto osservato. Quel pezzo di vetro luminescente che è la televisione diventa un ulteriore separazione tra i mortali e l’Olimpo dei deucoli televisivi.
Il teatro degli ultimi secoli separa spettatori e palcoscenico, ma non è sempre stato così ; oggi può essere utile riscoprire qualcuna delle mille forme che mescolavano attori e pubblico.
Rientrare nel proprio corpo
Picchiarsi o fare sesso: la TV ci inculca l’idea che i corpi possano comunicare solo coi due estremi. Nel mezzo, niente.I bambini incorporano precocemente questa banalizzazione e con essa una banalizzazione delle emozioni; eppure col loro corpo sono prontissimi a essere vivi e comunicanti nell’immensa danza delle relazioni quotidiane.
Il corpo dell’attore è una presenza meravigliosa perché decondiziona e riequilibra l’immagine del proprio corpo; sperimentare il teatro permette di ri-imparare l’enterocezione, il respiro, l’equilibrio, la gesticolazione, il contatto amichevole, non ambiguo e non aggressivo.
Manipolare bassa tecnologia
Il bambino sarà grande quando le potenzialità delle tecnologie digitali saranno formidabili. Noi adulti ci illudiamo di essere già diventati tecnologici, invece oggi stiamo assaggiando solo gli antipasti.
Riusciremo, noi uomini del secondo millennio, a insegnare ai cittadini del terzo millennio di godere in modo evoluto e critico di queste opportunità?
Si, ma a un patto: tanto più i bambini sono esposti ai “massimi tecnologici”, quanto più il nostro compito diventa quello di equilibrarli con altrettanti stimoli a bassa tecnologia: primitivi, materici, concreti, analogici. Il teatro che usa il corpo, la voce, gli oggetti più elementari, è una miniera di minimi tecnologici molto pregnanti ed evolutivi, che sono indispensabili al cucciolo umano per andare verso la pienezza emotiva e culturale.
Decelerare
Il consumismo ci costa non solo in materia ed energia, ma anche in tempo.
L’agenda di noi adulti è “ingolfata di mille niente”; il tempo del bambino ne è contagiato.
In un mondo sovraeccitato e sovrastimolante, per sopravvivere allo stress delle azioni continuamente interrotte, ci adattiamo a fare ragionamenti più brevi, elementari, superficiali.
L'eccitazione del correre provoca farmacodipendenza: decelerare porta spesso i bambini (e anche gli adulti) ad una certa “paura del silenzio” perché quando si apre la voragine di un pensiero più profondo, più intimo, di maggiore spessore umano, non siamo pronti, non siamo più abituati. L’esperienza del teatro riempie il tempo di qualità, carica le pause di attesa, riporta l’orologio biologico sul respiro, sul cuore che batte, sui passi che procedono.
Decolonizzare l’immaginario
Nonostante la crescita del computer e di internet, la dieta mediatica dei bambini è ancora in grandissima parte televisiva. La televisione, e specialmente la pubblicità, usa i bambini come una “macchina banale”, come un dispositivo che reagisce agli stimoli in modo prevedibile. Con una facile alchimia sentimentale (che l’adulto facilmente decodifica) il bambino può essere programmato dagli spot. Uno dei sistemi più ovvi per reagire è quello di portare il bambino dall’altra parte di una telecamera, di rompere il cristallo maledetto che separa noi mortali invisibili dai deucoli dell’Olimpo catodico. È un’ottima strada, certo non è l’unica: il teatro lavora sui simboli, la TV di massa sull’immaginario; quindi il teatro è psichicamente più fondante e più evolutivo.
Diventare emittenti
Oggi un bambino riceve 250.000 volte più stimoli (suoni, colori, movimenti…) di un coetaneo dell’800 o del ‘700. Riceve moltissimi input, ma dei suoi output non frega niente a nessuno.
Qualsiasi manuale di psicologia vi dice che chi non è ascoltato, non ascolta. Il risultato è la sindrome del bambino trasparente, cioè del bambino che si inventa qualsiasi moina, ricatto, provocazione pur di riuscire a farsi vedere. Il teatro offre un metodo ed una disciplina a questa esigenza di performance e visibilità. Offre anche migliori risultati e migliore riflessione sul proprio agito.
Usare la voce
Cantare, urlare, declamare, tornare ai suoni primigeni che oggi appaiono così poco educati.
Dal primo vagito all’ultimo rantolo noi siamo la nostra voce, che è sempre in scena, eppure la conosciamo poco. Anche agli insegnanti, a dire la verità, raramente qualcuno ha insegnato a usarla, nonostante sia il loro principale strumento di lavoro; usarla bene sarebbe formidabile, per la relazione educativa.
Essere applauditi
Tutti noi abbiamo un bisogno enorme di un riconoscimento collettivo e gratificante; abbiamo un’immagine di noi stessi quasi sempre pessima, mortificante. L’applauso è un’onda corale. Bisogna saperlo ricevere, a volte lo desideriamo talmente che temiamo di riceverlo, specie da adulti, perché l’adulto, più del bambino, ha terrore di ciò che più desidera. Non attacchiamo ai bambini questa nostra malattia.
Essere belli in modo bello.
Maledetti corpi televisivi. Mostrano una bellezza artificiale, fasulla, ma funzionano maledettamente bene per programmarci a sentirci brutti davanti allo specchio. Accade a chi è più vecchio, e accade anche a chi è più giovane. La differenza è che noi “vecchi” possiamo rimpiangere il passato ma difficilmente possiamo tornare a vent’anni; invece il bambino quell’età ce l’ha davanti, quindi non vede l’ora di crescere. Così si candida precocemente al massacro dell’autostima. Il teatro presenta un corpo vero; che non serve ad apparire ma ad essere; che sia grasso o magro, alto o basso, giovane o vecchio è bello se passa emozioni, se specchia le proprie storie con le nostre. E’ un’idea bella di bello.
Essere individui, ma nel gruppo
Veniamo da un paio di decenni che hanno esaltato l’individualismo e con esso la competizione singolare e il narcisismo. Le persone intorno dovrebbero essere un pubblico votato a ammirazione, invidia o gelosia.
Non può funzionare, non c’è individuo senza gruppo né gruppo senza individui.
Nel nuovo secolo entra chi impara a pensare insieme, a sentire insieme. E’ l'era dell’informazione condivisa e del pensiero connettivo, che nel mondo digitale sta attuando una rivoluzione silenziosa ma sconvolgente, una delle poche cose belle che stanno succedendo. Meraviglioso, ma nel mondo reale?
Anche per questo i bambini hanno un drammatico bisogno di teatro. Il teatro unisce il singolo al proprio gruppo, permette un equilibrio tra vedere gli altri, mostrarsi agli altri ed agire insieme agli altri. E’ una palestra di disciplina e di frustrazioni, di miglioramento intrapsichico densissimo e molto personale, tuttavia è sempre insieme, è sempre corale. Per certi versi somiglia allo sport di squadra, ma in più ci mette la riflessione estetica e poetica, la densità umana, la profondità dei pensieri e delle sensazioni.
Conclusioni
Il teatrante che interagisce coi bambini non è un pedagogista, non è un insegnante, non è un genitore, non è un terapeuta. È un artista e, se lavora coi bambini, è perché trova nella propria arte quel di più, perché sa scoprire cosa può e vuole regalare alle nuovissime generazioni.

*Tratto dalla relazione presentata in occasione di “Fare teatro a scuola secondo noi” – Udine 28/29 ottobre 2009 Teatro Nuovo Giovanni da Udine.